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Categoria: "Notizie scottanti"

Celiachia: ecco gli alimenti in cui non ti aspetteresti di trovare il glutine

Celiachia: ecco gli alimenti in cui non ti aspetteresti di trovare il glutine

In questi ultimi anni sempre più persone, tra adulti e bambini, scoprono di essere intolleranti al glutine, ovvero devono escludere in modo permanente dalla loro dieta tutti quei cibi che contengono questa sostanza proteica che è notoriamente presente nel grano, nell’orzo, nel frumento, nel kamut e nella segale.

 

Per evitare l’insorgere di disturbi legati all’assimilazione di glutine, non basta però eliminare quegli alimenti come pane, pasta, pizza, biscotti: se si vuole essere certi di nutrirsi in modo adeguato, è infatti necessario prestare molta attenzione anche a tutti quei cibi che contengono nella loro preparazione anche solo una minima parte di questa proteina del grano.

 

Ecco perché è molto importante conoscere l’abc della dieta del celiaco e leggere sempre, su tutti i prodotti alimentari, l’etichetta sulla quale vengono scritti gli ingredienti, in cerca della scritta “senza glutine”. Alcuni cibi insospettabili, infatti, potrebbero “nascondere” tracce di glutine e il rischio di contaminazione è elevato.

 

Glutine? No, grazie!

Ecco la lista di dieci cibi in cui forse non sai che ci potresti trovare tracce di glutine:

 

Salsa di soia: potrebbe essere ingannevole il suo nome, ma fate attenzione non sempre infatti è composta da sola soia (talvolta contiene grano e orzo). Leggete con attenzione che sull’etichetta ci sia scritto “gluten free”.

Ghiaccioli: ebbene sì proprio loro, il simbolo dell’estate per eccellenza! Al loro interno potrebbero nascondersi tracce di glutine utilizzato come addensante.

Bevande alcoliche: partendo dalla vodka fino ai distillati bisogna stare attenti perché potrebbero essere aggiunti aromi e sostanze a rischio, quindi sono idonei solo se puri, cioè tal quali senza aggiunta di aromi, coloranti o altri additivi. Mentre i liquori sono sempre a rischio.

Liquori

Sono ottenuti con trasformazione a freddo (macerazione, infusione, ecc.) partendo dall’alcol etilico o da altri liquidi alcolici, mescolati con sciroppo di zucchero ed aromatizzati, chiarificati, colorati, ecc.

Questa categoria è considerata ”a rischio”. Pertanto possono essere consumati con tranquillità solo quei liquori che sono presenti in Prontuario degli Alimenti, o riportanti la dicitura “senza glutine” ai sensi del Reg. 41/2009, o che sono prodotti artigianalmente in casa e di cui pertanto si possono controllare il processo produttivo e gli ingredienti utilizzati.

 

Distillati

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I distillati o acquaviti sono ottenuti tramite distillazione:

assenzio, brandy, cachaça, calvados, cognac, gin, grappa, rum, tequila, vodka, whisky, ecc.

Questa categoria è libera se il distillato è puro (tal quale) senza aggiunta di aromi, coloranti o altri additivi. Quindi, facendo un esempio: la vodka è libera, ma la vodka alla pesca è a rischio. Non sempre la presenza di altre sostanze si rende evidente dalla semplice lettura del nome del prodotto, come in questo caso, pertanto si consiglia di leggere attentamente l’etichetta prima di consumare un distillato.

Ovviamente, un prodotto “derivato” da distillato e contenente anche altri ingredienti (es. prodotti “a base di …”) ricadrebbe ugualmente tra le bevande alcoliche a rischio e può essere consumato solo se presente in Prontuario o se riporta la dicitura “senza glutine” ai sensi del Reg. 41/2009.

 

Whisky, vodka e gin: i recenti risultati degli studi promossi dall’EFSA (l’Autorità Europea per la Sicurezza degli Alimenti) e finalizzati alla ricerca dell’eventuale presenza di tracce di glutine nei distillati da cereali contenenti glutine ne hanno confermato l’assenza in queste bevande. Il processo produttivo tramite distillazione, infatti, è tale per cui il prodotto finito non può contenere glutine né esserne contaminato. provenienza sito AIC

 

Barrette di cioccolato: tra i loro ingredienti può celarsi amido o farina di grano.

Caramelle: bisogna sempre assicurarsi che non contengano aromi e altre sostanze ricche di glutine.

Prosciutto cotto: in questo caso il glutine viene apportato in fase di lavorazione come salagione a secco o in salamoia per mezzo di additivi. Accertatevi di acquistarne uno gluten free.

Condimento per insalate: vengono usati spesso amido e farina di mais per aumentarne la cremosità.

Gelati: ricordatevi di assicurarvi che non sia presente il glutine come agente legante e che sia presente la scritta SENZA GLUTINE sulle confezioni.

Formaggi fusi, a fette e spalmabili: spesso ricchi di addensanti e aromi, potrebbero essere il trionfo del glutine.

Curry: le spezie tale e quali sono idonee, ma il curry, essendo un mix di spezie addizionato con amidi, inseriti per prevenire agglomerazioni, è un prodotto a rischio.

Il consiglio finale è sempre e soltanto uno: è indispensabile imparare l’ABC della dieta gf e consumare gli alimenti a rischio solo se mostrano la dicitura “senza glutine”, oppure se sono presenti nel Prontuario tenuto aggiornato costantemente punto dall’associazione stessa, ed è consultabile online.

 

Si ringrazia Sara Quartarella (Responsabile Comunicazione presso AIC Umbria) per la preziosa collaborazione

http://www.nonnapaperina.it/2016/08/cibi-insospettabili/?utm_source=AgostoNews&utm_medium=email&utm_content=Newsletter2&utm_campaign=AS2016

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SVELATO IL MISTERO DEL DEJA VU, E' UN 'ANTIVIRUS DEL CERVELLO

SVELATO IL MISTERO DEL DÉJÀ VU, È UN 'ANTIVIRUS' DEL CERVELLO

Arriva all'improvviso e stupisce ogni volta: la netta sensazione, inspiegabile e anche un po' inquietante, di aver già vissuto quello stesso identico momento.

Sul fenomeno del 'déjà vu' si sono interrogate generazioni di esperti della mente e l'ipotesi più accreditata, almeno finora, è che si tratti di un falso ricordo.

Un inganno dei neuroni.

Secondo un nuovo studio, però, questa spiegazione è sbagliata.

 

Quella giusta sarebbe un'altra: il déjà vu è segno che il cervello sta facendo un check della memoria, per controllare il proprio archivio verificando che non nasconda degli errori.

 

Una sorta di 'antivirus' neurologico. A svelare il mistero è un lavoro firmato dal team di Akira O'Connor dell'università scozzese di St Andrews, presentato il mese scorso alla Conferenza internazionale sulla memoria di Budpest, in Ungheria, e ripreso dal 'New Scientist'.

 

Per capire il meccanismo alla base dei déjà vu, gli scienziati l'hanno praticamente riprodotto in laboratorio attraverso un esperimento su 21 volontari sottoposti alla risonanza magnetica funzionale.

 

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, quando la sensazione di 'già visto' si innesca non si accendono le aree cerebrali associate alla memoria, per esempio l'ippocampo, bensì le regioni frontali coinvolte nei processi decisionali.

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L'interpretazione di O'Connor e colleghi è che durante il déjà vu si attivano queste aree perché il cervello sta passando in rassegna i propri ricordi e inviando un segnale per indicare che ha trovato un errore: un conflitto fra ciò che abbiamo realmente vissuto e quello che invece pensiamo soltanto di aver già sperimentato.

 

In altre parole, la sensazione che ne deriva non dovrebbe spaventare bensì rassicurarci perché è la 'spia' di un cervello performante e in salute. Se questi risultati fossero confermati, sottolineano infatti gli autori, il déjà vu andrebbe visto come il segnale che il sistema di controllo della memoria sta lavorando bene e che è meno probabile incappare in falsi ricordi.

 

Non a caso il fenomeno viene riferito più frequentemente dai giovani, mentre si affievolisce in età più anziana quando le capacità mnemoniche si riducono.

 

Andando avanti negli anni, precisa O'Connor, "può darsi che i sistemi di controllo peggiorino e che il cervello diventi meno capace di individuare un ricordo sbagliato". I ricercatori tengono tuttavia a puntualizzare che queste conclusioni non dovrebbero allarmare chi un déjà vu non l'ha mai avuto: può anche essere che la sua memoria funzioni talmente bene da non aver bisogno di passare l'antivirus per ripulirla dagli errori.

 

Stefan Köhler, dell'università canadese del Western Ontario, evidenzia come al momento non sia possibile dire se il déjà vu sia un meccanismo vantaggioso o meno.

 

"Potrebbe accadere che una simile esperienza renda le persone più prudenti, ossia meno propense a fidarsi ciecamente della propria memoria - osserva - Ma al momento non abbiamo alcuna prova".

AdnKronos Salute

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Nuovo Supercomputer risolve un complesso caso clinico in soli 10 minuti per una rara forma di leucemia

Quasi come un Dottor House virtuale, il supercomputer Watson ha risolto un complesso caso clinico in soli 10 minuti, lasciando stupiti i medici dell'università di Tokyo che per mesi hanno cercato di trovare una cura ad una rara forma di leucemia

 

Quasi come un Dottor House virtuale, il supercomputer Watson ha risolto un complesso caso clinico in soli 10 minuti, lasciando stupiti i medici dell'università di Tokyo che per mesi hanno cercato di trovare una cura ad una rara forma di leucemia. Al centro della storia si trova l'intelligenza artificiale di IBM Watson, un supercomputer che lo scorso maggio aveva fatto parlare di sé perché si era spacciato per un essere umano all'interno del Georgia Institute of Technology come parte di un test sugli ignari studenti. Al tempo si era finto un assistente universitario, mentre ora si è calato nei panni di un medico che, in 10 minuti, ha confrontato i cambiamenti genetici della donna con un database di 20 milioni di ricerche sul cancro.

 

 

La paziente, alla quale era stata diagnosticata una leucemia mieloide acuta, era stata sottoposta a diversi trattamenti che, però, non avevano sortito l'effetto sperato. Così i medici hanno deciso di affidarsi alla "mente" del supercomputer sviluppato da Ibm, già utilizzato negli Stati Uniti all'interno di alcune strutture di ricerca sul cancro. In seguito all'analisi dei dati, l'intelligenza artificiale ha suggerito una cura che si è rivelata efficace, come riportano le agenzie giapponesi. "L'intelligenza artificiale ha la possibilità di cambiare il mondo" ha commentato Satoru Miyano, un ricercatore coinvolto nella ricerca. "Questa storia lo dimostra".

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L'elemento rivoluzionario è proprio il tempismo, che nella cura della leucemia – e di molte altre malattie – gioca un ruolo fondamentale. Confrontare milioni di dati a mano sarebbe stato lungo e probabilmente inutile, mentre sfruttando un'intelligenza artificiale in grado di comprendere ciò che sta "leggendo" e metterlo in relazione con il problema si riesce a ridurre tutto il processo ad una manciata di minuti. Ora il supercomputer sarà utilizzato in 14 centri oncologici di Stati Uniti e Canada per aiutare i medici a trovare le cure adatte ai pazienti malati di cancro.

 

continua su: http://tech.fanpage.it/cosi-il-supercomputer-watson-ha-salvato-una-donna-dalla-leucemia/

http://tech.fanpage.it/

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Guarire corpo e mente con i Campi Magnetici. La fisica quantistica dimostra che Tesla aveva ragione

Oggi si pensa ai campi magnetici a livello medico solo come uno strumento diagnostico, ma la medicina, soprattutto in Germania ed Inghilterra, si sta nettamente orientando verso le nuove applicazioni terapeutiche che le scoperte della fisica quantistica stanno portando alla luce.

Lo stesso Tesla più di 100 anni fa ne era a conoscenza e le provò su sé stesso. Come riportato nel libro di Edoardo Segato, Tesla – Lo Scienziato Contro:

“Nel corso delle sue ricerche Tesla comprese il valore stimolante e terapeutico delle alte frequenze e dei relativi campi magnetici sull’uomo, ma non brevettò mai nessun metodo o apparecchio. Si limitò ad annunciarne la scoperta nel 1892-93 nelle conferenze che tenne tra Europa e America. Tesla espose tutta una serie di possibili soluzioni terapeutiche non invasive. Tra questi c’era un trattamento magnetico, oggi uno dei metodi più all’avanguardia. Sono in molti a sostenere che entro breve sarà accessibile per tutti una medicina molto diversa, più radicale e meno invasiva, “senza fili”, e soprattutto senza farmaci e senza aghi.

Tesla sviluppò infatti un modello di bobina di piccola taglia, definita anche “oscillatore terapeutico” che fu richiesto in molti ospedali da un elevato numero di specialisti e di medici che volevano sperimentarne gli effetti e indagarne l’interazione con il corpo umano dei campi magnetici.

 

Abbiamo già visto come Tesla stesso avesse già effettuato test medici con le sue innumerevoli apparecchiature. Dopo l’incendio del laboratorio di East Houston Street l’inventore scampò alla depressione grazie alle innumerevoli ore di scariche elettriche rigeneranti a cui si sottopose giornalmente.”

 

 

Per chi non ne ha mai sentito parlare può sembrare strano ma chi è del settore conosce molto bene questo argomento. Un mio amico sta lavorando ad un progetto contro la malaria, la cui sperimentazione sarà ultimata a breve ma già i risultati sono sorprendenti: in una gabbia di Faraday viene emessa una piccola forza elettromagnetica che in una o due sedute a seconda del grado di gravità, distrugge il plasmodio all’interno del globulo rosso. E’ meraviglioso, ma è incredibile che nessuno ne parli.

 

Il Dott. Piergiorgio Spaggiari, fisico e medico di Milano, già docente universitario e ricercatore del CNR, in un’intervista a Scienza&Conoscenza spiega:

 

 

 

“A partire dalla scoperta della Risonanza Magnetica Nucleare, oggi è dimostrato che immergendo un corpo umano all’interno di un campo magnetico ottenuto dalla somma di un campo magnetico permanente ed un campo magnetico variabile, le cellule dell’organismo ubbidiscono alle sollecitazioni del campo magnetico generato.

Il comportamento è analogo per tutti gli esseri viventi: vegetali, animali, uomo e donna. Si tratta di una grandissima scoperta, in quanto prima si riteneva che la medicina fosse unicamente basata su reazioni di tipo biochimico mentre così si è dimostrato che le cellule sono soggette anche a reazioni di tipo biofisico.

 

Per quanto riguarda la terapia, io utilizzo una macchina di Risonanza Ciclotronica sviluppata da alcuni fisici italiani ma basata su un principio scoperto da un fisico russo, Liboff, per cui una cellula dell’organismo umano è in grado di riassorbire ioni persi se immersa in un campo magnetico permanente ultra debole al quale viene sommato un campo magnetico variabile la cui frequenza è pari alla frequenza di rotazione dello ione che deve essere riassorbito. L’intensità dei campi è molto bassa, dell’ordine di grandezza del campo elettromagnetico terrestre.”

 

Quando incontrai il Dott. Spaggiari di persona mi disse come ad esempio si può curare una persona che soffre di osteoporosi semplicemente immergendola in un campo magnetico “alla frequenza dello ione calcio”. Come puoi intuire le implicazioni di queste scoperte, che si basano sulla nuova fisica quantistica, sono immense.

 

Qualche tempo fa fece molto scalpore l’articolo MBST: Nuova tecnologia cura osteoporosi e artrosi con campi magnetici! in cui si affermava: “Cura l’osteoporosi e l’artrosi senza inserire protesi. Rigenera i tessuti cartilaginei, aiuta nella ricomposizione delle fratture. Non solo. Evita l’assunzione di farmaci antidolorifici e antiinfiammatori necessari dopo l’inserimento delle protesi e dimezza i tempi della riabilitazione, fatta solo se strettamente necessaria. Non si tratta di una pozione magica ma della tecnologia MBST®, ossia terapia a risonanza magnetica nucleare. La tecnologia, sviluppata in Germania 15 anni fa, utilizzata in 300 centri riabilitativi tedeschi e in paesi come Austria, Inghilterra, Turchia, Israele è semi sconosciuta in Italia.” Alla luce di quello che abbiamo detto finora è chiaro che non è magia, ma è la nuova medicina.

 

Basta fare una ricerca su internet e scoprire che ci sono tantissimi centri in Italia che fanno uso dellamagnetoterapia, di cui al momento i principali campi di applicazione sono:

Patologia dell’apparato muscolo scheletrico

Osteoporosi

Reumatologia (tutte le affezioni di natura infiammatoria)

Patologia vascolare, flebopatie ed arteriopatie

Dermatologia

Chirurgia (azione cicatrizzante)

Neurologia

Ginecologia

Oncologia

 

Il Prof. Carlo Ventura, direttore del laboratorio di biologia molecolare e bioingegneria delle cellule staminali presso l’istituto di cardiologia dell’università di Bologna, in stretta collaborazione con Università della California, afferma che le cellule, come tutto l’universo, vibrano e, facendo ascoltare le giuste frequenze alle cellule staminali, queste ultime possono essere istruite per divenire cellule specifiche dei nostri organi. Il campo magnetico può dunque innescare la guarigione. Nell’articolo Le frequenze che guariscono – L’antica medicina del futuro ho descritto come in passato fossero stati molti coloro che hanno realizzato generatori di frequenze (e quindi campi magnetici) ad uso medico riuscendo anche a curare il cancro con incredibile successo.

 

Più persone sono al corrente di queste informazioni vitali per la nostra salute, più facilmente questa nuova conoscenza potrà prendere piede nella classe medica. Questa è la medicina del futuro che tutti noi vogliamo per il nostro presente.

 

http://www.dionidream.com/guarire-campi-magnetici-tesla-fisica-quantistica/

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L’Infermiere e il Reiki: quando l’energia aiuta ad assistere

È una delle medicine complementari oggi più in vigore in Italia e nel mondo.

Il Reiki è tra le cure complementari più diffuse ed utilizzate tra gli Infermieri. Essa è una disciplina molto antica che si basa sul cosiddetto “tocco terapeutico”. Il Collegio Ipasvi di Genova ha fatto da apripista in Italia per lo studio di tale tecnica, che da qualche tempo viene insegnata in varie parti della nostra Nazione. Vediamo di cosa si tratta.

 

corso reiki

Alcuni Infermieri diventati esperti di Primo Livello Reiki

Gli Infermieri da sempre sono affascinati dalle cosiddette “cure complementari”. Il Reiki è una di queste.

 

Il Reiki fa parte delle Healing Touch ed è una delle medicine complementari più studiate scientificamente e clinicamente a livello internazionale. Il National Center For Comlemantary and Integrative Health (NCCAM), l’ente americano che studia e censisce le medicine non convenzionali, nel 2006 ha definito il Reiki come “un metodo di guarigione alternativo in cui l’operatore posiziona o avvicina delicatamente le proprie mani al corpo della persona con l’obiettivo di facilitarne la guarigione”.

 

Da oltre 30 anni medici, paramedici e operatori collaborano per testare con rigore scientifico questa tecnica messa a punto dal giapponese Mikao Usui agli inizi del novecento, e diffusasi ben presto in tutto il mondo.

 

Uno dei primi studi conosciuti sul Reiki è datato 1985, condotto dagli americani Braund e Schlitz, e indagava gli effetti della cura sullo stress. Da allora gli studi si sono moltiplicati, con rigore scientifico sempre maggiore, in particolare per quello che riguarda la gestione del dolore, gli effetti collaterali in pazienti trattati con farmaci chemioterapici, gli effetti su alcuni valori ematici (in particolare la neutropenia), sulle patologie cardiache (nel dettaglio sulle aritmie) sulla guarigione delle ferite, sull’ansia e sulla depressione.

 

Gran parte di queste ricerche, insieme alle molte altre condotte su Reiki, sono raccolte da PubMed, la banca dati biomedica online sviluppata dal National Center for Biotechnology Information (NCBI) presso la National Library of Medicine (NLM). Il valore scientifico delle informazioni è garantito dalla selezione manuale dei contenuti condotta da qualificati comitati scientifici.

 

Sono più di 2000 le pubblicazioni che, inserendo “Reiki” come parola chiave nella ricerca, compaiono tra i risultati; e il numero cresce, ogni anno, sempre di più.
Alla ricerca scientifica è seguito l’inserimento di Reiki negli ospedali: negli Stati Uniti per esempio, tra i primi ad inserire i trattamenti Reiki nelle carte dei servizi in diversi ospedali, l’insegnamento di Reiki è previsto nella formazione infermieristica nell’ambito delle Complementary and Alternative Medicine (CAM).

 

È opportuno qui chiarire che non si tratta di un sistema terapeutico da usare per guarire specifiche patologie, ma di una tecnica di supporto alla medicina allopatica al fine di ridurre l’utilizzo dei farmaci per una migliore compliance dell’utente.

Esso, infatti, può essere affiancato alle terapie convenzionali senza rischio di controindicazioni o interazioni con qualsiasi altro tipo di farmaco o trattamento.

 

Come funziona il Reiki?

Attraverso il “tocco”, l’operatore Reiki entra dapprima in contatto con il campo energetico della persona e si armonizza, in modo che il ricevente non viva questo tocco come un’invasione; a questo punto inizia il passaggio di “energia”: l’operatore, opportunamente istruito, si connette alla fonte energetica e diventa un canale, un catalizzatore di energia, che viene convogliata verso il ricevente attraverso le mani.

 

L’operatore è quindi un tramite, un canale: non rischia di andare in riserva di “energia personale ” e nemmeno di prendere disequilibri dal ricevente, come per esempio avviene nella pranoterapia.

 

Nella visione orientale, il corpo si ammala laddove l’energia al suo interno non scorre in maniera fluida: una situazione traumatica, specie se ripetuta nel tempo o di elevata intensità, porta una stasi oppure un mancato arrivo di energia in quelli che comunemente vengono chiamati “organi bersaglio“; e come avviene per la scarsa o mancata circolazione sanguigna, in breve tempo l’organo si ammala, producendo tutta una serie di sintomi che, se trascurati, portano alla malattia cronica o addirittura alla situazione non reversibile.

Inducendo uno stato di rilassamento e migliorando la circolazione energetica, Reikipotenzia l’effetto del farmaco riducendo il dosaggio.

 

Cosa c’entra il Reiki con gli infermieri?

In un rapporto tecnico dell’OMS del 1996 si legge: “gli infermieri di tutto il mondo sono divenuti sempre più consapevoli del fatto che ampi gruppi di popolazione in ogni paese stanno usando approcci tradizionali (che fanno riferimento alle varie etnie e culture, Nds) e complementari per mantenere o recuperare la propria salute. In molti luoghi gli infermieri sono stati innovatori di questo movimento.

 

Nei paesi industrializzati si stima che circa la metà della popolazione ricorra regolarmente ad approcci sanitari complementari. Nei paesi in transizione e in quelli in via di sviluppo la percentuale è addirittura superiore.

 

Alcuni di questi approcci complementari possono far parte di un piano terapeutico con il paziente se sono appropriati e accettabili.

 

Il tocco terapeutico, l’uso di infusi, il massaggio ed altri approcci complementari possono favorire l’assistenza infermieristica. Il personale infermieristico deve essere preparato a guidare i clienti nella scelta tra i differenti approcci assistenziali, complementari e tradizionali. La formazione dovrebbe mettere gli infermieri in condizione di capire i diversi approcci, la loro compatibilità con altre forme di cura e la loro accettabilità in seno alla tradizione culturale. Gli infermieri condividono la responsabilità di essere aperti e consapevoli circa tutto ciò che attiene all’assistenza sanitaria in cui lavorano” (OMS, Ginevra 1996).

 

Gli insegnamenti impartiti nei giorni scorsi presso il Collegio Infermieri di Genova derivano dalla scuola Reiki giapponese; al termine del seminario, a tutti i partecipanti è stato consegnato un “Attestato di Primo Livello Reiki – Shoden” secondo gli insegnamenti impartiti dall’Associazione Italiana Reiki (AIRE), oltre al l’attestato per i crediti ECM.

 

In autunno, sempre presso il collegio genovese, una nuova edizione e nuove opportunità per i colleghi di incontrare, conoscere e fare propria questa meravigliosa disciplina.

La disciplina si sta diffondendo radicalmente in tutta Italia e sempre più Infermieri, anche se spesso non ufficialmente, la studiano e la pratica.

FONTE : http://www.nurse24.it/infermieristica-e-reiki/

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