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Carta senza cellulosa per salvare gli alberi

L’attore Woody Harrelson ha immesso sul mercato un tipo di carta ottenuta da paglia di grano e non da cellulosa. Il suo sogno? Fermare la deforestazione.

Non di sola cellulosa è fatta la carta. La paglia di grano, come anche di riso e di zucchero di canna, ben si presta come materia prima per produrre la carta. In particolare, nel Nord America la paglia che avanza dalla raccolta di grano, solitamente destinata agli inceneritori, potrebbe essere utilizzata per produrre il fabbisogno nazionale di carta, attualmente ottenuto quasi del tutto da cellulosa, quindi dall’abbattimento degli alberi.

L’attore di Hollywood Woody Harrelson ha fondato 15 anni fa la società canadese Prairie Paperche nel 2012 ha immesso sul mercato la Step Forward Paper, carta ottenuta da paglia di grano e fibre riciclate.

L’obiettivo di Woody è diffondere il più possibile l’utilizzo di questo tipo di carta affinché sostituisca quella normalmente ottenuta da cellulosa. Per portare avanti questa impresa sono necessari fondi per gli investimenti, ai quali il Canada ha già partecipato versando circa 3,4 milioni di dollari.

Nel video qui sotto (in inglese) l’attore spiega che due confezioni di questo tipo di carta salvano un albero. Attualmente l’azienda è già riuscita a salvare 8.681 alberi.

Ce la farà Woody Harrelson a sensibilizzare l’opinione pubblica e il mercato affinché acquisti carta prodotta senza il sacrificio degli alberi e rallentare, così, la deforestazione planetaria?

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http://www.ecoblog.it/post/119365/carta-senza-cellulosa-ci-prova-woody-harrelson-per-fermare-la-deforestazione

Fonti:

ecoblog.it

stepforwardpaper.com

 

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La tecnologia riduce la nostra memoria

Internet. Social network. Smart p h o n e. Così il sovraccarico di informazioni intacca la capacità di ricordare. E l'intelligenza.

Scattare foto e postarle sui social davanti a un panorama mozzafiato. O commentare un film su Twitter mentre lo si guarda. Solo 10 anni fa non avremmo potuto fare tante cose tutte insieme. Ora è un'altra storia. Merito (o colpa?) della valanga di nuovi dispositivi tecnologici che abbiamo a disposizione. Gli stessi che - come effetto collaterale - stanno cambiando il nostro modo di memorizzare informazioni, imparare cose nuove e utilizzare le nostre capacità.

 

RIPERCUSSIONI SULL'INTELLIGENZA. Gli scienziati hanno dimostrato che far lavorare poco la memoria incide sul livello di funzionamento del cervello e sull'intelligenza in generale. «La memoria a lungo termine è il sistema di archiviazione della nostra mente», ha spiegato Nicholas Carr, autore di Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello. «Lasciare che fatti ed esperienze siano dimenticati vuol dire poi non riuscire a formare idee complesse che danno ricchezza al nostro pensiero».

 

LA FRAGILITÀ DELLA MEMORIA A BREVE TERMINE. Nel suo libro Carr spiega che «mentre la nostra memoria a lungo termine ha una capacità pressoché illimitata, nella memoria a breve termine lo spazio è più limitato e il deposito è molto fragile. Una pausa nella nostra attenzione può spazzare i suoi contenuti dalla nostra mente». Ecco cinque modi in cui la tecnologia sta modificando la tua memoria.

 

1. Il sovraccarico di informazioni rende più difficile ricordare le cose

 

Anche utilizzare per pochi minuti internet può rendere difficile archiviare informazioni. La maggior parte di noi infatti non è in grado di gestire efficacemente il sovraccarico di dati e notizie da cui siamo bombardati. L'americano Tony Schwartz ha paragonato la memoria di lavoro, quella che contiene informazioni che vengono tenute in mente per uno scopo, a un bicchiere. «È come continuare ad aggiungere acqua, tutto quello che è già dentro viene spinto fuori. Perdiamo costantemente informazioni che arrivano e che sono continuamente sostituite e non c'è posto per mettere quelle appena giunte».

 

FATTI SENZA CONNESSIONE. Per Schwartz «si tratta di un'esperienza s uperficiale perché riusciamo a tenere qualciosa a mente solo per un momento. È dura metabolizzare e dare un senso alle informazioni perché ne arrivano troppe». Ecco allora che si finisce per sentirsi sopraffatti dalle informazioni. «Quello che hai è una quantità infinita di fatti senza un modo di collegarli in una storia significativa», ha spiegato Schwartz.

 

 

2. Internet sta diventando il disco esterno del nostro cervello

 

 

I ricercatori hanno scoperto che, con uno strumento digitale in grado di immagazzinare delle informazioni al posto nostro, noi siamo sempre meno propensi a utilizzare la nostra memoria. In un recente articolo la rivista Scientific American ha paragonato internet all'hard disk esterno del cervello spiegando che l'aspetto sociale del ricordo è stato sostituito da nuovi strumenti digitali.

 

 

 

IL PROCESSO SOCIALE TRADITO. «Ricordare è, storicamente, un processo sociale», si legge sulla rivista, «ricordiamo certe cose e le condividiamo con gli altri che, a loro volta fanno affidamento su altri per colmare le cose che abbiamo dimenticato. In una certa misura, deleghiamo compiti mentali come il ricordare ad altre persone del nostro gruppo sociale». Ora internet fa questo lavoro per noi: quando abbiamo bisogno di controllare qualcosa apriamo Google piuttosto che chiedere a un amico.

 

 

 

3. La memoria collettiva 'svuota' quella individuale

 

 

L'attenzione è la chiave per formare dei ricordi che durino nel tempo. Ma quando commentiamo su Twitter un film o scattiamo una foto non siamo più in grado di ricordare i dettagli della storia o del panorama. Condividendo con altri le nostre esperienze, costruiamo una memoria collettiva che però va a scapito della nostra.

 

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CARENZA DI ATTENZIONE. «Il fatto che dimentichiamo le cose è un segno di quanto siamo occupati», ha detto Zaldy S. Tan, direttore della Clinica dei distrurbi della memoria del Beth Israel medical Center di New York. «Quando non stiamo prestando bene attenzione a quello che facciamo, i ricordi che formiamo non sono molto robusti e più tardi avremo il problema di recuperare le informazioni».

 

 

 

4. La conoscenza perde il suo valore personale

 

 

Quando ci affidiamo troppo alle tecnologie tendiamo a isolare parti delle informazioni che abbiamo senza collegarle a uno schema più ampio. «Spesso riduciamo la conoscenza in pezzi che non sono inquadrati in uno schema concettuale più ampio», è stata la spiegazione di John Edward Huth, professore di Fisica ad Harvard, «quando questo accade la conoscenza perde il suo valore personale».

 

 

 

I DETTAGLI PERDUTI. Ma abbiamo bisogno di una storia più grande per aiutare noi stessi ricordare i dettagli più piccoli. Abbiamo bisogno di un contesto più ampio per agganciare i dettagli nella nostra mente.

 

 

 

5. I ricordi dei nativi digitali degenerano rapidamente

 

 

 

Secondo una ricerca americana del 2013 i cosiddetti millennials, cioè coloro che sono nati tra gli Anni 80 e i primi Anni 2000 e ora hanno tra i 24 e i 35 anni, dimenticano più spesso che giorno è rispetto a chi ha 55 anni. Si va dal 15% dei giovani al 7% degli adulti. Se poi gli si chiede dove sono state nascoste le chiavi di casa si passa dal 14% dei millennials all'8% di chi è nato prima dell'era della comunicazione.

 

 

 

DALLO STRESS ALL'OBLIO. Secondo gli studiosi la perdita di memoria dei giovani è dovuta a stress, depressione e scarsa capacità di giudizio. «Questa è una popolazione che è cresciuta usando la tecnologia, ma essere multitasking comporta anche mancanza di sonno e tutto questo si traduce in elevati livelli di oblio».

 

 

Gioia Reffo

 

http://www.sibynews.it/index.php?title=La_tecnologia_riduce_la_nostra_memoria

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Ecco perche' l'uomo e' naturalmente buono

Il topolino vede di fronte a sé della bella cioccolata e vede anche un suo simile dolorosamente prigioniero dentro un tubo trasparente: guarda di qua e di là, che fare? Più di un topolino – non tutti, è vero – corre prima a liberare il suo simile, poi insieme vanno a mangiare la cioccolata. L’esperimento di Jean Decety all’Università di Chicago suggerisce che il topo conosca l’altruismo e l’empatia, che è il sapersi mettere nei panni degli altri. Sentimenti innati? O qualcuno glieli ha insegnati?

 

Il test di Chicago si inscrive in una serie di linee di ricerca tutte volte a scoprire se sia vero per gli uomini un antico interrogativo: che l’etica è innata, una legge inscritta nella nostra biologia e dettata dall’”interesse” dell’evoluzione. E’ nell’indagine su questa lunga strada che ha senso la prova con i topi, alla ricerca di un riscontro primordiale, “animale”. Che sostanzi l’ipotesi che potessero nutrire questi sentimenti anche gli ominidi delle caverne che fummo.

 

LE EMOZIONI “SOCIALI” - «Sì, furono loro a imparare che in gruppo si sopravvive meglio. Per esempio, condividendo il cibo in tempi di carestia, cosa che se tu fossi egoista ed egocentrico, chiuso, non generoso, non faresti mai. Dunque le emozioni che chiamiamo di tipo sociale furono via via selezionate come utili alla sopravvivenza della specie in quanto rafforzavano la coesione del gruppo». Donatella Marazziti, docente del Dipartimento di Psichiatria, Neurobiologia, Farmacologia dell’Università di Pisa, ha condotto con altri una review passando in rassegna i dati della letteratura su: ”Esiste una neurobiologia del comportamento morale?” E gli indizi raccolti (il processo è ancora indiziario) convergono verso un sì.

 

Considerando i modelli animali, specie nei mammiferi (fondamentali gli apporti dell’etologo Konrad Lorenz), si sono individuati come emozioni “sociali” del tipo utili alla sopravvivenza la gratitudine, la pietà, il senso di colpa, la compassione, il disprezzo. «Sono sentimenti con una forte ricaduta sociale e insieme formano un codice universale che tutti seguono a prescindere dalla società in cui vivono», osserva Marazziti. «Dietro a tutti sta un principio basilare: non nuocere agli altri. Come è pure innato il disgusto nel vedere far male a un altro. Ora, se queste emozioni sono sempre esistite, ne consegue che devono avere un substrato biologico, dei sistemi neurali che le reggono e le regolano»

 

IL VOLTO DELINQUENTE - La via per trovare “scritti” nel corpo le emozioni sociali parte da Cesare Lombroso e il suo “L’uomo delinquente” (1876) in cui descrisse forme e misure dei volti come segni certi di criminalità innata, passa per altri studiosi fino a Henry Maudsley che ipotizzò l’esistenza di un centro cerebrale specifico per i sentimenti morali, e a Emile Kraepelin che crea nel 1896 il termine “psicopatia” e descrive il disturbo di persone incapaci per la loro natura di essere morali.

 

IL CASO PHINEAS GAGE - Un cervello malato alla base della sociopatia, dunque ipotizzano in tanti. Ma malato dove, in quale parte del cervello? L’indicazione è venuta da un caso clamoroso di metà Ottocento il cui protagonista è il più famoso malato di tutta la psichiatria. Dunque, Phineas Gage era un addetto alla costruzione di ferrovie nel New England, Usa, che si occupava di porre gli esplosivi. Giovane molto stimato perché capace e affidabile sul lavoro, persona retta e solida nella vita quotidiana. Succede che un’esplosione mal fatta gli scaraventa contro la testa una barra metallica che gli trapassa la fronte ed esce dalla sommità della testa. Benché si fosse nel 1848, le cure salvano Gage (perde solo un occhio), ma da quel giorno è irriconoscibile: strafottente, offensivo, insofferente di regole e limiti, il linguaggio diventato osceno, in particolare è aggressivo con le donne. Tanto che, ripresentatosi al lavoro, il “nuovo” Phineas Gage non viene riassunto.

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LA ZONA ETICA - «Fu per la prima volta evidente che nel cervello umano vi sono sistemi che regolano la personalità e il modo di essere e di sentire individuali e che, come le ferite di Gage dimostravano, la loro posizione è nella zona frontale», riprende la professoressa Donatella Marazziti. «Da allora si sono accumulati studi, di recente molti condotti attraverso la Risonanza nucleare magnetica funzionale. Si è arrivati a individuare come aree coinvolte nella moralità la corteccia prefrontale ventro-mediale e l’adiacente area orbito-frontale, l’amigdala. A parte le implicazioni etiche delle ricerche, va tenuto presente che al posto della sbarra metallica di Gage possono ledere queste zone un ictus, un tumore, un’infezione o la rottura di un aneurisma modificando così il senso morale del malato».

 

Test su questi temi ha condotto in particolare Antonio Damasio, il neuroscienziato americano di origine portoghese che scrivendo sulla Repubblica il mese scorso proprio delle emozioni sociali sottolineava più volte che «non sono state inventate dalla ragione», che «il ragionamento consapevole» è arrivato dopo che la lotta per la sopravvivenza le aveva già selezionate e inscritte nel cervello come utili. A due giorni di distanza, stavolta sul Corriere della Sera, era il cognitivista Massimo Piattelli Palmarini a interrogarsi sull’etica innata sotto il paradossale titolo “Siamo pronti alla pillola della moralità?”, chiamando in causa il perdurare o meno del libero arbitrio.

 

LA LEZIONE DI ANTIGONE - Per distinguere le norme innate (morale normativa) e le norme scritte in leggi e costituzioni (morale descrittiva), la professoressa Marazziti nella sua review richiama il personaggio di Antigone dall’omonima tragedia di Sofocle. Il tiranno di Tebe Creonte non vuole che il fratello di Antigone sia sepolto per indegnità, ma lei ritiene un dovere morale dargli sepoltura, e lo farà, a rischio della vita, in obbedienza non alle leggi della città, ma a “leggi non scritte, inalterabili, eterne: quelle che nessuno sa quando comparvero”.

 

Quelle che Immanuel Kant chiamava la “legge morale dentro di me”, sublime ed esistente a prescindere come il “cielo stellato sopra di me”.

 

Serena Zoli

https://www.fondazioneveronesi.it/articoli/neuroscienze/perche-luomo-e-naturalmente-buono

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Come insegnare ai bambini a non cadere nel rischio droga e alcol

«Insegniamo a godere del piacere senza tormento» e «come rinforzante naturale usiamo la gioia». Chi mai non aderirebbe a un programma del genere? La diffidenza in un giovane nasce, semmai, quando sente parlare anche di scuola e digenitori coinvolti. Il progetto infatti mette insieme le classi di elementari, medie e persino l’asilo con un’associazione dal nome “Genitori attenti” e con gli psichiatri dell’Università di Padova specializzati nel trattamento delle dipendenze.

GENITORI ATTENTI - Per l’alcol, la medicina ha da pochi mesi acquisito una nuova sostanza anti-alcolismo, il Campral o acamprosato ed è «cosa preziosa, molto utile. Però per le dipendenze il farmaco da solo non è la soluzione», sostiene il professor Luigi Gallimberti, che è l’ordinario di psichiatria delle tossicodipendenze, dunque un “medico delle pastiglie” e non uno psicologo. Parla, poi, di questionari e di allenamento psicologico, però tira in ballo le neuroscienze - e precisi meccanismi cerebrali - come sostrato. Anzi, nel caso dei bambini delle elementari(ultime classi) farà “giocare con le neuroscienze”, pare con gran divertimento degli scolari, ma allo scopo di incidere durevolmente sui loro neuroni.

Non sarà troppo presto, come età, per questioni che riguardano il fumo, l’alcol, le doghe, il gioco d’azzardo, la dipendenza da Internet o da certi siti in particolare, tipo quelli p o r n o g r a f i c i? «Ma ai ragazzi non parliamo di questo, ai genitori sì. E se siamo scesi ai 10 anni di età con i nostri programmi di formazione per la prevenzione, contiamo di abbassarci ai 4 anni», dice Gallimberti. I nomi sono già a prova d’età: “Cappuccetto Rosso” e “Pinocchio” fino a “Epicuro per giovani centauri” dedicato ai tredicenni, in attesa del patentino moto.

IL METODO - Per spiegare il metodo dell’Università di Padova occorre fare diverse premesse. Una sta nel ricordare il “Marshmallow test”, importante negli studi di psicologia sociale e della personalità, che lo psicologo austriaco Walter Mischel compì negli anni ’60. A bambini di 4 anni offrì delle caramelle marshmallow spiegando che potevano prenderne una subito o aspettare qualche minuto e prenderne due. Dopo 14 anni Mischel constatò che gli ex bambini che si erano comportati impulsivamente erano diventati dei giovani con bassa autostima e un certo livello di frustrazione mentre quelli che da piccoli avevano saputo aspettare erano adulti socialmente più competenti e con maggior successo negli studi. «Ne deriva la constatazione che sopportare la piccola sofferenza insita nel posporre un piacere, allena i “muscoli” della personalità, oltre a procurare, poi, un piacere maggiore», spiega il professor Gallimberti. Del resto, prosegue, piacere e sofferenza sono i due lati della medaglia, inscindibili. «Adamo ed Eva quando scoprono il piacere, il prezzo è di divenire mortali».

Ma per non pagare un prezzo così alto, ecco l’altra premessa da ricordare, che riguarda Epicuro. L’Associazione “Genitori attenti” ha esordito appena qualche settimana fa su Internet con un sito intitolatowww.genitoriattenti.com (attenzione a non sbagliare il dominio: it al posto di com richiama sul video un’altra associazione omonima). Bene, sotto il logo di un cuore a due teste, di genitore e figlio, compare subito la citazione-proclama del filosofo greco: «Nessun piacere è in sé un male. Sono i mezzi usati per procurarsi certi piaceri che, alla fine, arrecano più tormento che gioia».

SPOSTARE IL PIACERE - «E’ ai genitori - dice lo psichiatra padovano - che insegniamo a sottoporre i propri figli ad una “palestra psichica” allenandoli a spostare in avanti il premio e a darlo sempre e solo quando l’abbiano guadagnato con un lavoro. «Invece oggi i genitori danno e danno sempre di più, altro che una o due caramelle - continua il professore - danno l’intero pacchetto con la raccomandazione “fai il bravo”». Dopo le marshmallow danno la bici, poi la moto, a seguire la macchina. «In questo modo fregano i loro figli. Non gli fanno crescere i muscoli per il piacere ed ecco che i ragazzi non godono a fondo di quanto ricevono perché non c’è stata prima la ‘sofferenza’ del desiderio e la gratificazione poi del premio per un impegno assolto. Annoiati, incapaci di godere senza i rinforzanti naturali, vanno a cercare rinforzanti non naturali, stimolazioni più forti, come sono appunto droghealcol, il gioco. Sono i mezzi bollati da Epicuro, che poi danno tormento».

Tutta l’evoluzione poggia su questi principi. Da milioni di anni la gratificazione è servita a orientare i comportamenti che vanno selezionati per salvare l’individuo e la specie. “Vince” la possibilità più piacevole, più premiante. «Certe specie si sarebbero già estinte se la natura si comportasse come tanti genitori di oggi», ironizza Luigi Gallimberti. «Il piacere nasce già nei protozooi, prima delle cellule, perché vi sono molecole simili alla morfina che aiutano a sopportare la ‘sofferenza’, il distress necessario per lo sviluppo della vita nel pianeta».

SUSCITARE EMOZIONI - L’affascinante viaggio indietro nel tempo atterra, nel nostro cervello, tra amigdala e ippocampo. «La prima, colma di dopamina, neurotrasmettitore che trasmette il piacere, viene attivata per un fatto emotivo e agisce sull’ippocampo, che è la sede della memoria a lungo termine, fissando lì il ricordo. E’ questo il meccanismo che sollecitiamo con i bambini e ragazzi dei nostri corsi: suscitando emozioni abbastanza intense tendiamo alla interiorizzazione dei ricordi».

Quali emozioni? Gli aspiranti motociclisti, per esempio, con un gioco di simulazione sul computer devono guidare una moto cercando di tenere la strada. Da sobri ci riescono, ma se la simulazione finge che il guidatore abbia bevuto 2-3 bicchieri di birra il ragazzo constata che anziché frenare in 13 metri, ce ne mette ben 26 (l’alcol rallenta i riflessi) mentre se la finzione riguarda il consumo di uno spinello non sa più calcolare la distanza di un ostacolo.

CERVELLO IN COSTRUZIONE - «Ci impegniamo su 1.000-2.000 alunni alla volta così da poter avere una rappresentatività statistica - continua il professor Gallimberti -. Alla fine, nel paragone con i gruppi di controllo non sottoposti a esperimento, abbiamo visto nel gruppo trattato: 1) una riduzione significativa del primo uso di sigarette,spinelli e, poi, di alcolici; 2) l’attrazione per l’uso di sostanze non ancora provata è scesa da un valore iniziale di 8 a 4. Questi risultati li abbiamo ottenuti attivando appunto l’amigdala e l’ippocampo con informazioni-emozioni».

Il fatto è che il nostro cervello è “in costruzione” fino ai 25 anni, per questo è tanto importante prevenire il precoce ricorso a sostanze eccitanti, in quanto creano danni permanenti. «Se metto una droga in circuiti cerebrali non ancora formati è come dare una scossa elettrica che fa saltare i collegamenti tra i neuroni e incide sulla mielina che li sta avvolgendo. Diverso l’impatto se una persona esordisce con la droga da adulto. Anche se le dipendenze da alcol e sostanze restano – e sono sempre più chiaramente - malattie neurologiche».
Tutto si gioca sui due tasti gioia e dolore. E come si intitolerà il prossimo libro di Luigi Gallimberti che uscirà dopo l’estate sulle dipendenze? Morire di piacere.

Serena Zoli

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La nuova bibbia degli psichiatri : DSM-5

Verrà pubblicato il prossimo maggio, ma l’importante è che sia stato approvato. Il DSM-5 è già una realtà, quel Manuale Diagnostico e Statistico delle malattie mentali, quinta edizione, cui l’Associazione degli psichiatri americani (Apa) stava lavorando teoricamente dal 1999 , in realtà dal 2006 quando fu nominato capo della task forcelo psichiatra David J. Kupfer. La data della presentazione ufficiale è stata scelta in coincidenza con il congresso annuale dell’American Psychiatric Association a San Francisco, in California, 18-22 maggio 2013.

LA SVOLTA DEL 1980- C’è molta attesa per questa quinta edizione poiché dovrebbe trattarsi diuna profonda revisione dopo 30 anni, a far data dal “rivoluzionario” DSM-III del 1980 che segnò una svolta epocale nella disciplina, conquistando al volume  il titolo di “bibbia degli psichiatri” in tutto il mondo.

Fu la scelta, allora, di sposare in pieno il metodo scientifico descrittivo e un linguaggio capace di accomunare specialisti dei più diversi contesti geografici e culturali. Come ha dichiarato il presidente dell’Apa, Dilip Jeste, le prime due edizioni del Manuale, 1952 e 1968, «erano sostanzialmente influenzate dalle teorie psicoanalitiche». Indimostrabili.

Per ora è ancora in vigore la quarta edizione del 1994, poi rivista nel 2000 (DSM-4R). Come ogni volta, anche per passare al n. 5 è stata coinvolta un’ampia task force internazionale costituita di 1.500 esperti tra psichiatri, psicologi, assistenti sociali, infermieri psichiatrici, pediatri, neurologi, appartenenti a 39 Paesi.

«Tra le modifiche nel nuovo testo», commenta lo psichiatra Giovanni Battista Cassano, professore emerito dell’Università di Pisa, «alcune rilevanti sul disturbo bipolare, di cui sono state considerate le patologie sottosoglia. Il disturbo ossessivo-compulsivo è stato tolto dai disturbi d’ansia, è meglio definito l’autismo con tutto il suo “spettro”».

UN LINGUAGGIO COMUNE - Ma, soprattutto, al professore preme difendere il Manuale dalle polemiche. «Ci sono sempre state, e feroci, dall’uscita della III edizione nel 1980. E anche oggi ci saranno. Invece il DSM è un prodotto ineguagliabile e quando sono stati fatti tentativi da opporgli per sostituirlo le proposte non sono state accettate. Così è per il manuale dell’Organizzazione mondiale della Sanità, lo ICD-10, la Classificazione internazionale dei disturbi giunto alla decima edizione: da un punto di vista scientifico, è generico e vago».

Continua Cassano: «Il DSM puntava all’affidabilità per cui un numero sempre maggiore di clinici potesse fare diagnosi uguali e comunicarsele con un linguaggio comprensibile perché comune. Così il Manuale nasce per finalità diagnostiche epidemiologiche, cioè per studiare l’incidenza dei disturbi psichiatrici nella popolazione, poi è stato allargato  alla diagnosi clinica e a fini terapeutici o medico-legali e alla ricerca. Grande suo merito è aver promosso un progresso enorme nel riconoscimento dei disturbi mentali».

Serena Zoli

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