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Categoria: "Cure Naturali"

La Sodarshan Chakra Kriya per cancellare dall'Aura le impronte di relazioni passate una meditazione

La Sodarshan Chakra Kriya per cancellare dall'Aura le impronte di relazioni passate

Questa è una potente meditazione trasformativa che si dice invochi l'energia Kundalini per darti la vitalità e l'intuizione necessarie per combattere gli effetti negativi della mente subconscia.

È una meditazione curativa che può aumentare la tua profondità, dimensione, calibro e felicità. Secondo i tantra shastra, purifica anche il tuo karma passato di relazioni passate e gli impulsi subconsci che potrebbero impedirti di realizzare chi sei veramente.

.La pratica
Postura: sedersi in posizione facile con la colonna vertebrale dritta e un leggero blocco del collo.

Occhi: gli occhi sono fissi sulla punta del naso. (Questa meditazione non deve essere fatta con gli occhi chiusi.)

Respiro e Mantra:

a) Blocca la narice destra con il pollice destro. Inspira lentamente e profondamente attraverso la narice sinistra. Sospendere il respiro.

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Canta mentalmente il mantra Wha-Hay Gu-Roo 16 volte.

Tirare l'ombelico per 1/3 su Wha, 1/3 più in profondità su Hay e completamente su Guroo. Ripeti questo processo, cantando mentalmente il mantra.
WA HEY GURU scriviamo noi

b) Dopo le 16 ripetizioni, sblocca la narice destra. Posiziona l'indice destro (si può usare anche il mignolo) per chiudere la narice sinistra ed espira lentamente e profondamente attraverso la narice destra.

Continua a ripetere a) eb).

 

yogibaghjan su youtube

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Che cos' e' davvero il multiverso?

 

Che cos’è davvero il multiverso?

Gli scienziati riescono a guardare solo fino a un certo punto quali sono i confini dell’universo. Sapremo mai se c’è qualcosa oltre?

Che cos’è un multiverso?
Multiverso è il termine che gli scienziati usano per descrivere l’idea che, al di là dell’universo osservabile, possano esistere anche altri universi. I multiversi sono inclusi in varie teorie scientifiche che descrivono diversi scenari possibili: dalle regioni dello spazio in piani diversi rispetto al nostro universo, fino a distinti universi a bolla che emergono continuamente.

Tutte queste teorie hanno un’unica cosa in comune: suggeriscono che il tempo e lo spazio che possiamo osservare non sono l’unica realtà possibile.!!!!!!!!!!!!!!!

Perché gli scienziati pensano che possano esistere più universi?

“L’esistenza di un solo universo non basta a spiegare tutte le caratteristiche di quello in cui viviamo”, spiega il giornalista scientifico Tom Siegfried il cui libro, intitolato The Number of the Heavens, indaga su come si è evoluto nel corso dei millenni il concetto di multiverso.

“Perché le costanti fondamentali della natura sono quelle che sono?”, si chiede Siegfried. “Perché nel nostro universo c’è abbastanza tempo per creare stelle e pianeti? Perché le stelle splendono in quel modo, proprio con la giusta quantità di energia? Tutte queste sono domande a cui non sappiamo rispondere con le nostre teorie fisiche”.

Siegfried afferma che esistono due possibili spiegazioni: o servono teorie nuove e migliori per spiegare le caratteristiche del nostro universo, oppure è possibile che “siamo solo uno di molti universi differenti e viviamo in quello più piacevole e comodo”.

Quali sono le teorie più diffuse sul multiverso?
L’idea forse più accettata nell’ambiente scientifico è quella conosciuta con il nome di*inflazione cosmologica, ovvero l’idea che nei momenti immediatamente successivi al big bang l’universo si sia espanso rapidamente ed esponenzialmente. L’inflazione cosmica spiega molte delle proprietà osservate dell’universo, come la sua struttura e la distribuzione delle galassie.

“Questa teoria inizialmente sembrava fantascienza, anche se molto fantasiosa”, spiega Linde, uno degli ideatori della teoria dell’inflazione cosmica. “Ma spiegava così tante caratteristiche interessanti del nostro mondo che si è cominciato a considerarla seriamente”.

La teoria prevede tra l’altro che l’inflazione possa ripetersi nel tempo, magari anche all’infinito, creando una costellazione di universi a bolle. Non tutte quelle bolle hanno le stesse caratteristiche della nostra, potrebbero infatti esistere spazi in cui le leggi della fisica funzionano diversamente. Alcune potrebbero essere simili al nostro universo, ma tutte esistono al di là di ciò che possiamo osservare direttamente.

Ci sono altre teorie?
Un altro tipo interessante di multiverso è la cosiddetta interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica, una teoria che descrive il comportamento della materia dal punto di vista matematico. Proposta dal fisico Hugh Everett nel 1957, l’interpretazione a molti mondi prevede la presenza di linee temporali ramificate, o realtà alternative in cui le nostre decisioni si sviluppano in modo diverso, talvolta producendo risultati estremamente diversi.

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“Hugh Everett afferma che di fatto esistono infinite Terre parallele, e quando compi un esperimento e ottieni delle probabilità, quella è la dimostrazione che stai vivendo sulla Terra dove quello è il risultato dell’esperimento”, spiega il fisico James Kakalios dell’Università del Minnesota, che ha scritto a proposito della fisica (o meno) di supereroi, “ma sulle altre Terre il risultato è diverso”.

Secondo questa interpretazione, varie versioni di un individuo starebbero vivendo le molte vite possibili che quello stesso individuo avrebbe potuto vivere se avesse preso decisioni diverse. Tuttavia, l’unica realtà che può percepire è quella in cui vive.

Quindi, dove esistono tutte le altre “Terre”?
Sono tutte sovrapposte in dimensioni a cui non possiamo accedere. Max Tegmark del MIT (Massachusetts Institute of Technology) definisce questa teoria Multiverso di livello III, in cui molteplici scenari si realizzano in realtà ramificate.

“Nell’interpretazione a molti mondi la bomba atomica esiste, solo che non sai esattamente quando scoppierà”, spiega Linde. E forse, in alcune di quelle realtà, non scoppierà affatto.

Al contrario, i molteplici universi previsti da alcune delle teorie dell’inflazione cosmica sono quelli che Tegmark chiama Multiverso di livello II, dove la fisica di base può essere diversa tra i vari universi. In un multiverso inflazionario, prosegue Linde, “non si sa neppure se, in alcune parti dell’universo, la bomba atomica sia addirittura possibile in linea di principio”.

Quindi, volendo incontrare sé stessi, cosa dovremmo fare? È* possibile viaggiare tra i multiversi?
Sfortunatamente no. Gli scienziati pensano che non sia possibile viaggiare tra gli universi, almeno non ancora.
“A meno che gran parte delle leggi della fisica ormai ampiamente consolidate non si rivelino errate, , spiega Siegfried. “Ma chi può dirlo? ”.

Esistono prove dirette dell’esistenza di questi multiversi?
Anche se alcune caratteristiche dell’universo sembrano implicare l’esistenza di un multiverso, non è stato direttamente osservato niente .

Alcuni esperti sostengono che potrebbe essere un’eccezionale coincidenza cosmica che il big bang abbia originato un universo perfettamente equilibrato, ideale proprio per la nostra esistenza. Altri scienziati ritengono più probabile che esistano una serie di universi fisici, e che semplicemente noi abitiamo in quello che presenta le caratteristiche più adatte per la nostra sopravvivenza.

Quella di un numero infinito di piccoli universi alternativi – o universi bolla – alcuni dei quali hanno leggi fisiche diverse o costanti diverse,

Gli scienziati dibattono sulla possibilità che il multiverso sia addirittura una teoria empiricamente dimostrabile; secondo alcuni non lo è, considerato che, per definizione, un multiverso è indipendente dal nostro universo e non è possibile accedervi. Ma forse non abbiamo ancora scoperto il test giusto.

Sapremo mai se il nostro universo è solo uno dei tanti?
Forse no. Ma i multiversi sono alcune delle previsioni di varie teorie che possono essere testate in altri modi e se quelle teorie superano tutti i test, allora magari anche la teoria del multiverso reggerà. Oppure, forse, alcune nuove scoperte aiuteranno gli scienziati a scoprire se esiste davvero qualcosa al di là del nostro universo osservabile.

“L’universo non è limitato a ciò che alcune masse di protoplasma su un piccolo pianeta sono in grado di capire o di testare”, conclude Siegfried. “Possiamo dire che una teoria non è verificabile e quindi non può essere vera, ma ciò significa solo che non sappiamo come verificarla. E forse un giorno scopriremo come fareMa l’universo può fare tutto ciò che vuole”.

https://www.nationalgeographic.it/che-cos-e-davvero-il-multiverso

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La vita eterna degli alberi

La “vita eterna” degli alberi

Una nuova ricerca internazionale rivela i segreti della longevità nelle*specie arboree.
Una nuova ricerca internazionale, pubblicata su Nature Communications, dimostra per la prima volta il carattere universale della relazione inversa fra velocità di accrescimento e longevità negli alberi. Gli alberi a rapida crescita hanno minori aspettative di vita e i nuovi risultati dimostrano che questa legge è all’opera in specie evolutivamente distanti (dalle conifere alle piante a fiore) nei diversi climi del Pianeta (dalle fredde foreste della taiga fino a quelle tropicali).

Mappando un maestoso faggio alto 40 m nella Riserva Statale di Foresta Umbra nel Parco Nazionale del Gargano

Geografia della longevità delle specie arboree
Per raggiungere questo risultato è stato necessario costruire una banca dati unica caratterizzata da oltre 200mila serie di crescita ottenute da 110 specie arboree: il risultato di uno sforzo internazionale che ha unito gruppi di ricerca europei, nord e sud americani, coordinati da Roel Brienen della School of Geography dell’Università di Leeds (UK).
Allo studio hanno partecipato per l’Italia i ricercatori del Laboratorio di Dendroecologia dell’Università della Tuscia Alfredo Di Filippo, Michele Baliva e Gianluca Piovesan che hanno contribuito con i dati di molti anni di ricerche di campo dedicate alla scoperta di alcune fra le più integre foreste vetuste d’Europa e allo studio dei segreti della longevità degli alberi.

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“Questo studio spinge in avanti le conoscenze sulla fenomenologia della longevità nelle specie arboree, finora concentrate soprattutto sulle specie di foreste boreali o temperate – dichiara Alfredo Di Filippo - In un precedente lavoro sugli alberi temperati decidui dell’Emisfero Nord avevamo già descritto come i fattori che riducono la crescita promuovono la longevità negli alberi.

Dal Giappone agli Stati Uniti, le specie mesofile (come faggio o aceri) avevano mostrato una diminuzione di 30 anni dell’età massima per ogni aumento di 1°C della temperatura del sito. Come conferma lo studio, le riduzioni di longevità non sono il risultato diretto della temperatura, ma dell’effetto indiretto esercitato dal clima locale sulla produttività arborea”.

In realtà la legge che lega crescita e longevità è da lungo conosciuta in*dendrocronologia.
“Gli alberi, come tutti gli organismi viventi, tendono a massimizzare la fitness, ossia il patrimonio genetico trasmesso alle generazioni successive. Ogni specie lignificante, in base al programma scritto nel patrimonio genetico e in relazione a un determinato ambiente, investe i fotosintetati in modo diverso tra crescita (per vincere la competizione), riproduzione (per lasciare alle generazioni future il compito di perpetuare la specie) e processi metabolici per la sopravvivenza (accumulo di riserve, deposizione nel legno di composti antisettici, massa volumica) – continua Gianluca Piovesan - Ciò che rende però gli alberi di estremo interesse è l’assenza di un invecchiamento programmato nel cambio, quell’insieme di cellule meristematiche che rigenerano i tessuti di conduzione.

In teoria, quindi, gli alberi sono immortali e si possono accrescere per anni e secoli praticamente all’infinito.
Allora perché un albero muore? Il perché di questa relazione inversa tra crescita e longevità, valida sia a livello interspecifico sia a quello intraspecifico, non è del tutto chiaro. Sembra infatti che una determinata specie di albero, raggiunta una dimensione limite (massima per le condizioni ecologiche locali) divenga più suscettibile ai disturbi abiotici (vento, siccità, fulmini) e/o biotici (attacco di insetti) che ne determinano la morte”.
DA CARLO ANDRIANI
www.nationalgeographic.it

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La mente puo' controllare e vincere il dolore fisico?

 

 La mente può controllare e vincere il dolore fisico?

Non è tutta una questione mentale ma un moderno approccio potrebbe offrire sollievo a chi soffre di dolore cronico.

DI MERYL DAVIDS LANDAU

Dan Waldrip ha sofferto, a fasi alterne, per 18 anni. Era un 27enne in salute quando una mattina, il giorno dopo aver rasato il prato, si è svegliato con un dolore alla schiena talmente lancinante da non riuscire ad alzarsi dal letto.

In seguito ha cominciato ad avere dolore a intermittenza: si sentiva bene per settimane e poi arrivavano giorni di dolore intenso o sordo.

Nel corso degli anni Waldrip ha speso migliaia di dollari in procedure chiropratiche, agopuntura, fisioterapia, antidolorifici e numerosi altri trattamenti. Una volta, durante un viaggio di lavoro in Sudafrica, per disperazione si è rivolto a un “guaritore di energia” in un mercato all’aperto. Poiché nulla sembrava avere effetto, Waldrip si è rassegnato al fatto che il suo problema alla schiena avrebbe influenzato la sua vita per sempre.

“Se mentre camminavo mi cadeva qualcosa, andavo nel panico all’idea che piegarmi avrebbe potuto peggiorare la situazione”, spiega Waldrip che ora lavora come gestore di private equity a Luisville, in Colorado.

Tutto è cambiato, però, quando a una manifestazione di nuoto della figlia ha visto un volantino in cui si reclutavano pazienti con dolore cronico alla schiena per uno studio clinico su un trattamento, chiamato Terapia di rielaborazione del dolore, o PRT (dall’inglese Pain Reprocessing Therapy).

L’obiettivo della terapia era riprogrammare il cervello di Waldrip insegnandogli che il suo dolore continuo non era dovuto a una lesione persistente del tessuto, ma a un malfunzionamento dei circuiti neurali correlati alla sua paura del dolore, ovvero ciò che gli esperti chiamano “catastrofizzazione”.!!!!!!!!!!!!!!!!

Il dolore cronico affligge circa il 20% degli americani, secondo il Centers for Disease Control and Prevention (Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie). Le conseguenze devastanti della dipendenza da analgesici oppioidi — che nel solo 2019 ha ucciso quasi 50.000 persone negli Stati Uniti — hanno spinto i ricercatori a cercare trattamenti innovativi, oltre a nuovi farmaci.

Le ricerche sugli approcci alternativi sono “moltiplicate in modo esponenziale”, spiega Padma Gulur, direttrice del programma per la strategia di gestione del dolore presso il Duke University Health System. “Cerchiamo opzioni alternative agli oppioidi e, francamente, anche ai farmaci” per evitare effetti indesiderati e dipendenza, spiega la scienziata.

Un campo di ricerca promettente si occupa del fatto che “catastrofizzare” il dolore, ovvero pensare che non migliorerà mai, che è il peggiore di sempre o che ti rovinerà la vita, è un approccio che gioca un ruolo fondamentale rispetto alla possibilità che queste previsioni alla fine si avverino.

Questo effetto è molto diverso dai commenti sbrigativi del tipo “è tutta una questione mentale” che i pazienti affetti da dolore cronico talvolta si sentono dire dai medici quando questi ultimi non riescono a individuare una causa fisica al dolore, spiega Yoni Ashar, psicologo del Weill Cornell Medical College e coautore dello studio a cui ha preso parte Waldrip.

Ad alcuni ricercatori contemporanei non piace nemmeno il termine “catastrofizzazione”, poiché potrebbe implicare una sorta di colpa o responsabilità del soggetto.

“È possibile provare un dolore molto reale e debilitante senza alcun danno biomedico all’organismo, a causa dei cambiamenti nei modelli di elaborazione del dolore”, spiega Ashar. In questi casi, prosegue, “l’organo principale che causa il dolore di fatto è il cervello!!!!!!!!!!!!!!!!!!!”. Ecco perché, per alcune persone, i trattamenti come la terapia di rielaborazione del dolore sembrano funzionare.

Durante lo studio clinico, Waldrip ha scoperto che il dolore derivante da una lesione fisica non va e viene, come invece accadeva con il suo dolore lombare. Inoltre, si è reso conto che sia la prima manifestazione del dolore che gli episodi più intensi che sono seguiti erano tutti correlati a importanti fattori di stress della sua vita. Nel 2022, Waldrip è andato a sciare sulle montagne dello Utah per cinque giorni consecutivi e non ha sentito neppure un dolorino.

La richiesta di alternative ai farmaci oppioidi
Il concetto per cui il dolore può peggiorare quando la persona che lo percepisce ci pensa in modo costante, esaspera il livello dell’esperienza dolorosa o si sente impotente nei confronti del dolore, viene preso in considerazione da decenni. Una scala di catastrofizzazione del dolore che valuta i livelli di questo pensiero è stata sviluppata nel 1995 ed è ancora ampiamente in uso. Eppure molti medici al di fuori dei circoli accademici non hanno familiarità con l’impatto di questo comportamento, secondo gli esperti.

Molte persone che hanno partecipato al famoso programma multidisciplinare sul dolore del Centro ambulatoriale dello Spaulding Rehabilitation Network a Medford, in Massachusetts, hanno combattuto contro il dolore cronico per anni prima di arrivare lì. Eppure, quando il personale dello Spaulding spiega che
i pensieri possono avere un ruolo nel dolore, la maggior parte dei soggetti rimane sorpresa, spiega Eve Kennedy-Spaien, supervisore clinico del programma.

C’è ancora molta strada da fare prima che l’idea che i pensieri negativi sul dolore possano peggiorarlo diventi un luogo comune, afferma l’esperta.

Un numero sempre maggiore di studi documenta il fatto che un punteggio elevato sulla scala della catastrofizzazione è correlato a risultati sanitari peggiori. Uno dei primi studi, che risale al 1998, riporta che le vittime di incidenti stradali con i punteggi di catastrofizzazione più elevati presentavano dolore e disabilità più intensi (indipendentemente dai livelli di depressione o di ansia) rispetto ad altri pazienti con lesioni simili. Scoperte recenti si aggiungono a questi risultati: l’anno scorso alcuni ricercatori europei hanno stabilito che i pazienti affetti da artrite reumatoide e artrite psoriasica che valutavano il proprio livello di dolore come “molto elevato” avevano una qualità della vita peggiore rispetto ad altri affetti dalle medesime malattie, anche quando l’analisi obiettiva dei loro sintomi non supportava tale considerazione.

Alcuni scienziati che studiano bambini colpiti da anemia falciforme hanno scoperto che la catastrofizzazione era il singolo fattore predittivo principale della possibilità che il dolore interferisse con le attività quotidiane quattro mesi dopo.
Il modo in cui i bambini pensavano al proprio dolore rivestiva un ruolo più significativo di qualunque altro fattore, “più di ansia, depressione e addirittura più del livello di dolore provato inizialmente”, spiega Mallory Schneider, psicologa di una struttura privata di Roswell, in Georgia, coautrice dello studio.

Gli scienziati hanno anche riportato che la percezione dei dolori più acuti era associata in modo significativo a una maggiore catastrofizzazione del dolore stesso, nonché a sintomi depressivi, nelle donne colpite da cancro al seno.

Anche se gli esperti sono al lavoro per individuare con precisione i meccanismi coinvolti, sanno che catastrofizzare influenza di fatto il cervello. Gli effetti sono stati documentati con risonanze magnetiche funzionali in cui le regioni del cervello coinvolte nella percezione e nella modulazione del dolore si illuminavano quando i pazienti avevano pensieri più catastrofizzanti.

Avere pensieri estremi quando si prova dolore è un processo naturale, che ha senso dal punto di vista biologico, spiega Kennedy-Spaien: “Il nostro cervello è programmato per identificare i pericoli e analizzare i casi peggiori per proteggerci”, spiega. Ma in alcuni casi l’allarme continua a suonare anche dopo che la lesione fisica è guarita, aggiunge.!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

I medici a volte esasperano la catastrofizzazione, utilizzando tecnicismi che incutono timore per descrivere la situazione al paziente, ad esempio spiegare l’artrite come “ossa contro ossa” o mostrare un’ernia del disco anche quando non provoca alcun dolore: tutti input che possono aumentare il senso di pericolo, afferma Kennedy-Spaien.

Anche il razzismo in ambito medico può avere un ruolo, fa notare Schneider, in quanto i neri sono generalmente più inclini alla catastrofizzazione rispetto ai bianchi. “È ampiamente noto che i neri vengono presi meno sul serio riguardo al dolore e, nel corso del tempo, questa esigenza di doversi spiegare in modo più deciso per farsi ascoltare può diventare un comportamento acquisito”, aggiunge.

La catastrofizzazione si può superare
I medici del dolore che riconoscono l’importanza di placare la catastrofizzazione in genere consigliano ai pazienti una terapia cognitivo-comportamentale, spiega Mark Lumley, professore di psicologia presso la Wayne State University. Questa pratica psicologica viene spesso usata per trattare depressione, disordini alimentari e anche la sindrome post-traumatica da stress. Ma la letteratura mostra che questo tipo di trattamento non è utile per il dolore, aggiunge Lumley. Una revisione del 2019 di studi sul dolore muscoloscheletrico cronico valutava l’uso della sola terapia unita all’esercizio fisico e concludeva che i vantaggi di questo approccio erano risultati ridotti quando non del tutto assenti.

Un approccio diverso dei medici potrebbe essere trascorrere più tempo parlando con i pazienti della frequenza e della gravità del loro dolore, suggerisce Schneider. La scienziata ha avviato il suo studio dopo aver ascoltato sistematicamente bambini affetti da anemia falciforme descrivere il proprio dolore in modo estremo. “Dicevano ‘è il peggiore che ho mai provato’, oppure, ‘non passa mai’. Ma quando ponevo loro altre domande, ottenevo una prospettiva più equilibrata”, spiega. I bambini realizzavano che avevano provato dolori peggiori in passato o che gli episodi precedenti erano di fatto poi scomparsi, aggiunge.

Invece di chiedere semplicemente ai pazienti di valutare il dolore su una scala da 1 a 10, ovvero il modo classico con cui viene misurato il dolore, Schneider suggerisce ai medici di indagare ulteriormente. “In questo modo i pazienti possono ottenere una visione più precisa della propria esperienza, e ciò aiuta il medico, che altrimenti può sentirsi frustrato nei confronti del paziente e quindi non trattare correttamente il suo dolore”.

Includere uno screening sulla catastrofizzazione del dolore tra le pratiche ordinarie potrebbe essere molto utile, spiega. E aggiunge: “Le strutture mediche hanno migliorato l’attività di screening per depressione e ansia, ma non altrettanto per la catastrofizzazione”.

Allo Spaulding, team composti da medici, psicologi, fisioterapisti, terapisti occupazionali e altri esperti hanno tutti l’obiettivo di distogliere l’attenzione della persona dai “messaggi di pericolo” che i pazienti affetti da dolore si ripetono regolarmente. Questi messaggi spesso si focalizzano sul rischio di ulteriori lesioni fisiche o dolore estremo, se muovono il corpo in un modo che provoca fastidio.

“Aiutiamo le persone a capire la differenza tra dolore e danno”, spiega Kennedy-Spaien. Alcuni movimenti possono provocare sensazioni spiacevoli o anche dolore, ma questo non significa che viene provocato un danno, afferma. Iniziare lentamente a compiere questi movimenti è particolarmente importante, perché “quando si evitano completamente alcune attività, il cervello non riesce a ricalibrarsi”, e a capire che il movimento è sicuro e non pericoloso.

Il paziente dello Spaulding Michael Cross spiega che
imparare a ridurre i propri messaggi negativi è stato provvidenziale.
L’imprenditore 68enne in pensione è rimasto gravemente ferito nel 2019 cadendo su una lastra di acciaio accanto a un cassonetto all’aperto. Cross si è sottoposto a svariati interventi chirurgici importanti per guarire le lesioni alle ossa e ai nervi del volto e del braccio. Il dolore divorava tutti i suoi momenti di veglia e Cross temeva che non se ne sarebbe mai liberato.

I danni ai nervi lo hanno fatto sentire sentire come se “fossi punto dalle api 24 ore su 24”, ma cambiare i messaggi del suo cervello gli sta dando speranza per la prima volta dopo l’incidente.

“Sto imparando che la mia mente può controllare i livelli di dolore acuto e ridurli”, spiega. *
Un metodo particolarmente efficace è sostituire le paure con immagini e messaggi positivi ‘di sicurezza’: visto che prima dell’incidente amava le barche, Cross spesso rievoca immagini di se stesso mentre pesca su una magnifica barca all’alba.

 https://www.nationalgeographic.it/la-mente-puo-controllare-e-vincere-il-dolore-fisico

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Ponete i palmi delle mani come a formare un libro aperto, all'altezza del viso.
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